È tempo di darti conto dello stato delle cose e fare il punto del lavoro fin qui svolto. Te ne parlerò con sobrietà, con quella pacatezza che è stato il segno distintivo del tuo modo di porti e di proporti, fin da quella coraggiosa lettera del gennaio del 1991 con la quale comunicavi a quello che si faceva chiamare geometra Anzalone che non avresti mai ceduto al suo ricatto, usando un linguaggio a tratti gentile ma anche tanto fermo da non lasciare margini per possibili ripensamenti. Una lettera al "caro estortore" dai toni "non gridati" perché voleva dare il segno della tua serenità e della "normalità" della tua posizione, dalla quale non potevi deflettere perché era "naturale" per un uomo come te - Libero di nome e di fatto - che pretendeva di vivere in un consesso civile. Altri, che avevano posizioni pavide e conniventi, erano "anormali" portatori di comportamenti "innaturali"; quelli che giravano il viso dall'altra parte per non vedere e non sentire, e quelli che vedevano te e ti apostrofavano subdolamente come l'incomodo destabilizzante di un ordine sociale, in realtà profondamente ingiusto e a forte densità criminale. Ti ricordo ancora ospite della trasmissione televisiva "Samarcanda". Anche in quella circostanza, con la stessa pacatezza ma con altrettanta fermezza, esprimevi le tue considerazioni sul "primato del consenso" affermando, con grande capacità di sintesi e lucidità, che la qualità delle leggi non può che essere direttamente correlato alla qualità del consenso politico. Inserendo così nel dibattito, in tempi di negazione della complessità del fenomeno mafioso, il tema decisivo del rapporto tra mafie e società e tra mafie, politica ed istituzioni. Mi è indelebile ancora il tuo ricordo in un altro studio televisivo dove con la stessa pacata lucidità dichiaravi significativamente non solo un'antimafia di principio, ma un'antimafia che affondava le radici dei suoi sensi nel tuo lavoro d'imprenditore, per il quale rivendicavi il tuo diritto alla libertà d'intrapresa nella gestione della tua azienda. Ancora una volta, caro Libero, con la forza delle idee dei "fuori dal coro" indicavi all'attenzione del Paese il tema costituzionale della democrazia economica e della responsabilità sociale dell'impresa.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti e, purtroppo, molto sangue doveva ancora essere versato, dopo quel tragico 29 agosto del 1991, prima che cominciasse a cambiare qualcosa. In particolare, nella lotta contro il racket ci sono stati di recente positivi cambiamenti. Oggi un imprenditore che denuncia trova ben altra attenzione sia da parte delle Istituzioni che da parte della società, rispetto a quanto da te vissuto. La capacità d'intervento dell'Autorità Giudiziaria è ben altra come dimostrano i risultati importanti conseguiti soprattutto negli ultimi anni. Lo Stato si è dotato di leggi di sostegno alle vittime. Sono cambiate profondamente anche le associazioni di categoria. È cresciuto il radicamento delle associazioni antiracket.
Non voglio dirti, caro Libero, che tutto vada bene, anzi c'è tantissimo da fare ancora. Soprattutto occorre dare continuità ed omogeneità all'azione della società e delle Istituzioni contro il racket e gli altri fenomeni criminali che, oltre agli incalcolabili prezzi umani che determinano, minano alla base lo sviluppo socio-economico di vaste aree del Paese, ormai ben oltre i tradizionali confini del Mezzogiorno d'Italia. E tuttavia, sarebbe profondamente ingiusto e ingeneroso non rilevare che oggi il clima è certamente cambiato, grazie alla determinazione di uomini come te che hanno pagato con la vita il loro straordinario impegno in tutti i campi - economico, sociale, istituzionale -, e a tanti altri che modestamente hanno provato a continuare nel solco del vostro esempio. Oggi, grazie anche ai risultati del lavoro investigativo della Magistratura e delle Forze dell'Ordine, non vi è più nessuno che in buona fede possa affermare, per esempio, che in Sicilia a pagare il pizzo sono soltanto il 5-10% delle attività economiche, così come ancora pochi anni fa qualcuno, con importanti incarichi istituzionali, voleva fare credere.
Un altro cambiamento, verificato soprattutto negli ultimi anni, riguarda la constatazione della diffusione di un ampio dibattito attorno ai temi della cultura della legalità. Fatto sicuramente positivo, ma che va seguito con la massima attenzione perché a volte l'impressione è che tutti, proprio tutti parlano di legalità, talvolta anche quelli che, forse, non avrebbero le cosiddette "carte in regola" per parlarne con titoli di conoscenza e di coerenza. Ne parlano perfino quelli già condannati per corruzione, per favoreggiamento, per associazione mafiosa. Così tutti parlano di legalità, tutti investono sulla legalità, tutti promuovono la legalità, tutti invitano a vivere nella legalità. Ma non sappiamo come, caro Libero, di legalità continua a vedersene sempre ben poca. Passiamo così da un'infiltrazione mafiosa all'altra, da una corruzione all'altra, da un scandalo all'altro. Sanità, rifiuti, appalti pubblici, brogli elettorali. Non ci fanno mancare proprio niente.
In questo quadro a corrente alternata, nel quale non vanno negate le luci ma vanno rilevate pure le ombre, noi proviamo a fare quel che possiamo, avendo ben chiari limiti, difficoltà e situazione delle forze in campo e, quindi, senza farci facili illusioni. Non abbiamo altro obiettivo che quello di mettere in campo il nostro impegno civile. Un contributo di passione e di idee che ci fa guardare al quadro complessivo delle questioni di sofferenza della società italiana, all'interno del quale resta comunque prioritaria la lotta contro i fenomeni criminali e mafiosi.
Ecco perché abbiamo voluto che il Premio Libero Grassi non si occupasse soltanto di racket, e vogliamo continuare ad utilizzare questa manifestazione per far riflettere su altre questioni che meriterebbero, a nostro giudizio, ben altra attenzione e un più diffuso allarme sociale. E così, dopo esserci occupati di racket e usura, caro Libero, questa volta abbiamo voluto porre l'attenzione su altri gravi problemi del nostro paese come quello delle morti bianche, della devastazione dell'ambiente e della lotta contro tutte le mafie. Queste problematiche hanno, secondo noi, un comune denominatore. L'insufficiente controllo del territorio da parte dello Stato, che va esaminato con rigore nella sua complessità, non nascondendo le positive consapevolezze e progressi organizzativi, ma anche stigmatizzando ritardi e inadempienze operative e culturali. Tuttavia, desideriamo declinare il termine "Stato" nell'accezione più ampia che certamente comprende l'insostituibile azione istituzionale, sul piano repressivo e preventivo, ma considera altrettanto decisiva l'azione di tutte le Forze sociali e culturali sul territorio, da quelle politiche a quelle imprenditoriali e sindacali, a quelle associative del volontariato e della promozione sociale. É illusorio ritenere di poter combattere le grandi questioni soltanto sul piano repressivo, combatterli soltanto sul piano legislativo è pura demagogia. Eppure, sembra che nel nostro paese tutti pensino che i problemi si risolvano sempre con nuove leggi, sovrapponendo norme su norme, a volte contrastanti tra loro, spesso incomprensibili ai più, mentre invece ben pochi si preoccupano della loro concreta attuazione e, soprattutto, di dare i mezzi necessari a chi deve assicurare la loro applicazione.
E così, caro Libero, che il nostro paese continua ad essere attraversato da tir che trasportano rifiuti tossici che non vede nessuno, che poi arrivano in discariche abusive che non conosce nessuno. E dove si costruiscono palazzi abusivi che non vede nessuno, se non quando scivolano a valle per una frana o quando si sgretolano per un modesto terremoto. (Anche se, a dire il vero, anche le costruzioni pubbliche cadono come se fossero di cartapesta, nonostante siano costate ai contribuenti onesti cifre astronomiche). Un paese dove le mafie continuano a poter contare su un fatturato gigantesco, che investono anche in attività legali così da incrementare la loro capacità di condizionamento del nostro vivere civile. Un paese, il nostro, nel quale si continua a morire di lavoro, nelle fabbriche e nei cantieri. 1.200 ancora le morti bianche lo scorso anno.
Ecco, caro Libero, perché per noi promuovere la cultura della legalità vuol dire affrontare concretamente i problemi relativi all'inaccettabile presenza del crimine organizzato, così profondamente innervato in tutti i gangli della nostra società, ma senza dimenticare di dover costantemente promuovere i valori della cittadinanza attiva e della partecipazione. Noi col nostro modesto lavoro proviamo a dare un contributo perché questi valori diventino i valori di tutti. Un modesto contributo perché non sia reso vano il sacrificio di chi, come te, è stato disposto a pagare il prezzo della sua vita per la libertà.
Nel tuo nome, in questi anni, abbiamo coinvolto tanti giovani, facendo leva sulla loro voglia di protagonismo, affrontando con loro diverse tematiche e proponendo l'uso di strumenti diversi di comunicazione. Dai manifesti antiracket agli spot antiracket e antiusura, passando per il libro "Lettere al caro estortore", in questi cinque anni hanno partecipato al premio Libero Grassi alcune centinaia di scuole e migliaia di alunni realizzando prodotti che a noi sono sembrati tutti particolarmente significativi, anche quelli che poi non è stato possibile premiare, che ci dimostrano di essere riusciti nell'intento di costruire momenti di riflessione e di analisi collettive. Vogliamo sperare, caro Libero, che il lavoro che abbiamo voluto dedicarti sia da te condiviso e, possibilmente, apprezzato. Da domani si riparte per costruire la nuova edizione del Premio, con l'impegno di sempre e con lo stesso entusiasmo, auspicandoci una sempre maggiore partecipazione e, soprattutto, sperando che questo nostro lavoro possa essere d'aiuto alle nuove generazioni perché sappiano sentire - come diceva Paolo Borsellino - "il fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità".
Ciao Libero, alla prossima.
Salvatore Cernigliaro